Nino D'Antonio - Ricerche e sparimantazioni d'Arte Contemporanea di Remo Romagnuolo

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Critici e giornalisti
 
    Nino D’Antonio

CHE C’E’ DIETRO GLI ESITI
DELL’ORIGINALE RICERCA
DI REMO ROMAGNUOLO

C’è l’occhio avido di un sedicenne, dietro la  scoperta della pittura  da  parte  di  Remo  Romagnuolo. Uno  sguardo  curioso, che  s’incanta  fra quei semplici impasti che un compagno mette insieme. Abitano vicino, ma  la loro frequentazione non ha niente in comune con la scuola. Remo studia al Fermi, che significa tanta matematica e fisica, per venire fuori perito industriale, l’amico l’Istituto d’Arte, a base di disegno e regole prospettiche.
 
E’ un altro mondo rispetto alle leggi della tecnica, e Remo ne subisce fatalmente la suggestione. Così prova a fornirsi di qualche colore e tenta le sue prime esperienze.
 
Siamo alle soglie degli anni Sessanta, e la scoperta della pittura si avvia a superare ogni previsione. Perché appena qualche stagione dopo, Remo affronta la riproduzione di un particolare della Vocazione di San Matteo del Caravaggio. E’ un’impresa da pittura copista, che per giunta possa contare su molto mestiere e tanta confidenza col modello. Ma il risultato cui il giovane perviene, è più che mai encomiabile.
 
L’avventura prende le mosse da questa prima prova, che apre la via a un percorso che lo vedrà impegnato per circa un decennio, fino al 1970. Sono anni in cui il mondo dell’arte è scosso da quelle spinte di rinnovamento, non facili da conciliare con la nostra tradizione. L’attacco è contro la pittura figurativa, e  in special modo contro quel gusto per l’immagine, troppo spesso ai confini del descrittivismo.
 
Remo Romagnuolo non ha un credo estetico cui riferirsi, né può contare su uno specifico bagaglio culturale. Il rifiuto dell’immagine – imposta dai nuovi orientamenti dell’arte – non comporta per lui una totale rinuncia. Per cui Remo la violenta, la consuma, la dissolve. Ne lascia appena una debole sopravvivenza, che va ricercata con fatica oltre il dominio del colore. Ma non la esclude mai.
 
Perché è da questo momento che la sua pittura si trasforma in uno spazio senza confini, dove le cromie gestite con particolare sapienza, raccontano storie imprevedibili. E qui va chiarito che il dominio del colore non comporta mai l’assenza di contenuti, anche se questi rimangono spesso sommersi, e direi mortificati, da quell’orgia cromatica che invade a tutto campo la tela.
 
Di qui la suggestione di queste opere, che richiedono di superare l’incantamento del colore, per ricercare fra le pieghe, fra l’andamento morbido delle volute, nella magia delle sinusoidi, la presenza di un tema, quasi sempre di forte attualità.
 
Cedere a una narrazione fatta in prevalenza di solo colore, consente intanto a Remo una maggiore libertà. Il progetto, ovvero lo spunto di avvio da cui nasce l’opera, riesce più agevolmente a trasformarsi in immagine, perdendo così ogni iniziale connotazione intellettiva. Insomma, le sinusoidi o le tassellature geometriche della pittura di Remo si prestano meglio a interpretare contenuti,  spesso  abbastanza complessi e sempre legati al nostro tempo.
 
 
Romagnuolo non è stato mai un pittore a tempo pieno. La vita gli ha imposto un doppio lavoro, che ha lasciato poco spazio all’arte. Eppure non l’ha mai trascurata, spesso attraverso soluzioni del tutto imprevedibili. Penso alle tante piccole sculture messe insieme con i tagli dei metalli (quei residui di lastre di ferro utilizzate per le esercitazioni dei nuovi assunti all’Italsider), fino a una serie di opere disperse in un mare di donazioni.
 
Il pieno ritorno all’arte è pertanto riconducibile solo ai primi anni Novanta. Quando entrambi i lavori (specie quello di consulente tecnico per vari Comuni dell’Irpinia) gli consentono infine di tirare il fiato. Così quella soluzione a mezza strada fra passato e revisionismo – che aveva qua e là fatto registrare la sua presenza nel campo dell’arte – esplode pienamente.
 
E’ la stagione in cui la figura si fa sempre più scarna, sottile, debole, fino a ridursi a non più di un contorno, di una linea appena riscontrabile. “Questa è la mia cifra, la mia identità. Che è poi quella di uno che ama e pratica l’arte, ma senza troppi cerebralismi. Certo, c’è dentro l’Espressionismo, qualche traccia di Futurismo, l’Astrattismo, ma senza mai rinnegare del tutto le mie radici, che sono quelle figurative”.
 
L’analisi di Remo è sincera e precisa. Perché permette di essere verificata attraverso le opere nate fra gli anni Novanta e il Duemila. Mi riferisco ad esempio a “La Cina che avanza” dove la figura di una nota direttrice di orchestra è rappresentata da qualche elemento del volto appena accennato, e dalla mano (anch’essa tutta da decifrare) che impugna la bacchetta.
 
Ma anche “Cultura tibetana” è del tutto riconducibile a questa scelta. Siamo infatti all’immagine quantomai sfocata di un monaco, che stringe il capo fra le mani. Un gesto che esprime la disperazione di questi religiosi per i limiti imposti alla loro libertà di culto.
 
A partire dal Duemila, le sinusoidi vorticose e a forte colorazione – che fin qui hanno caratterizzato la pittura di Remo – subiscono una decisa svolta. Nel senso, cioè, che perdono quel loro andamento morbido, per assumere forme d’ispirazione geometrica – quadrati, triangoli, circonferenze, piani prospettici – che spesso s’intersecano, dando vita così a echi di sicuro Espressionismo astratto.
 
 
La mostra “Nel cuore del computer” è il più recente approdo di questa lunga e tormentata ricerca di Romagnuolo. “Ho un lontano rapporto con la più avanzata tecnologia. Forse ha origine dal tipo di studi che ho seguito da ragazzo. Ma al di là di questo, mi ha sempre affascinato ogni nuova invenzione. E non tanto per il suo utilizzo, quanto per tutto quello che c’è dietro …”.
 
In sostanza, non è il computer in sé che interessa a Remo, quanto come faccia ad assolvere tante funzioni, come sia stato possibile mettere insieme un meccanismo così perfetto. E’ probabile che qualcuno di noi fra quelli più dotati di confidenza con questi “aggeggi”, sia stato qualche volta tentato da domande del genere. Ma credo che nessuno abbia trasferito questi interrogativi in pittura.
 
Ed è invece proprio quello che ha fatto Remo. Il quale ha finito per attribuire al computer una sua identità, fino a provare a leggerne l’origine, l’evoluzione, le inevitabili crisi e le decise affermazioni. Insomma, il computer si è fatto persona del nostro tempo, con tutte le difficoltà a vivere in un mondo, ancora a ponte fra passato e presente, e ormai senza più confini.
 
Di qui un cumulo di emozioni, ma anche di riflessioni sulla storia di questo prodotto all’avanguardia di ogni tecnologia. Dai primi prototipi, giganteschi e poco affidabili, a quelli che oggi offrono, in dimensioni sempre più ristrette, sicure risposte ad ogni nostra esigenza.
 
“Non è stato facile trasferire queste riflessioni in pittura. Le idee restano un prodotto razionale, e vanno bene per portare avanti una tesi. Ma l’arte ha tutt’altra matrice. Nasce dalla fantasia, dalle emozioni, dal sentimento. Insomma, si è trattato di passare da un mondo all’altro, ovvero dal cervello al cuore …”.
 
E bisogna dire che Remo c’è riuscito. Fedele al principio di puntare su un solo elemento ed elevarlo a spia di tutta una realtà. Di qui gli schermi, le tastiere, le lettere, i numeri, i simboli, le icone, in una parola il linguaggio del computer prende corpo, fino a farsi intimo e familiare. Ce lo ritroviamo così sotto gli occhi, nella vivacità dei colori che lo rappresentano, come se fosse uno di noi.
 
In fondo – a ben pensarci – fa parte della nostra vita di tutti i giorni. Anzi, ha finito per occuparne un posto di rilievo. Che la pittura di Romagnuolo non manca di celebrare. Così la mostra si accredita anzitutto per la sua originale ispirazione e la magia dei colori. Ma anche perché ci spinge a qualche opportuna riflessione. Anche se non immediata, né facile.
 
Perché quella di Remo non è pittura di immediato approccio. Richiede un impegno a voler andare oltre la tela e l’intrigo dei colori. Un accesso che ci rimanda a un corredo di esperienze nel campo dell’arte, se non addirittura a un codice, per cogliere la stretta relazione che intercorre fra quelle figure in filigrana e l’onda di colore che le sommerge.




 
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